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Jeli il pastore

Jeliil guardiano di cavalliaveva tredici anni quando conobbe don Alfonsoil signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Biancalavecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra. Lo si vedeva sempre diqua e di làpei monti e nella pianuradove pascolavano le sue bestierittoed immobile su qualche greppoo accoccolato su di un gran sasso. Il suo amicodon Alfonsomentre era in villeggiaturaandava a trovarlo tutti i giorni cheDio mandava a Tebidie dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncinoeil pane d'orzo del pastorelloo le frutta rubate al vicino. DapprincipioJelidava dell'eccellenza al signorinocome si usa in Siciliama dopo che si furonoaccapigliati per benela loro amicizia fu stabilita solidamente. Jeli insegnavaal suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazzesulle cime deinoci più alti del campanile di Licodiaa cogliere un passero a volo con unasassataa montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancoraindomiteacciuffando per la criniera la prima che passasse a tirosenzalasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomitie dai lorosalti disperati. Ah! le belle scappate pei campi mietuticolle criniere alvento! i bei giorni d'aprilequando il vento accavallava ad onde l'erba verdee le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei meriggi d'estatein cui la campagnabianchicciatacevasotto il cielo foscoe i grilli scoppiettavano fra lezollecome se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d'inverno attraverso irami nudi del mandorloche rabbrividivano al rovajoe il viottolo che suonavagelato sotto lo zoccolo dei cavallie le allodole che trillavano in altoalcaldonell'azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come lanebbiail buon odore del fieno in cui si affondavano i gomitie il ronzìomalinconico degli insetti della serae quelle due note dello zufolo di Jelisempre le stesse - iuh! iuh! iuh! - che facevano pensare alle cose lontaneallafesta di San Giovannialla notte di Nataleall'alba della scampagnataa tuttiquei grandi avvenimenti trascorsiche sembrano mesticosì lontanie facevanoguardare in altocogli occhi umidiquasi tutte le stelle che andavanoaccendendosi in cielo vi piovessero in cuoree l'allagassero!
Jeliluinon pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sulciglionecolle gote enfiateintentissimo a suonare - iuh! iuh! iuh! - Poiradunava il branco a furia di gridi e di sassatee lo spingeva nella stalladilà del poggio alla croce.
Ansandosaliva la costadi là dal vallonee gridava qualche volta al suoamico Alfonso: - Chiamati il cane! ohéchiamati il cane! - oppure: - Tiramiuna buona sassata allo zainoche mi fa il capricciosoe se ne viene adagioadagiogingillandosi colle macchie del vallone -; oppure: - Domattina portamiun ago grossodi quelli della gnà Lia -.
Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago; e ci aveva un batuffoletto dicenci nella sacca di telaper rattoppare al bisogno le brache e le maniche delgiubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavalloe si lavavaanche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al colloquando aveva freddo. Insommapurché ci avesse la sua sacca ad armacollononaveva bisogno di nessuno al mondofosse stato nei boschi di Reseconeo perdutoin fondo alla piana di Caltagirone. La gnà Liasoleva dire: - Vedete Jeli ilpastore? è stato sempre solo pei campicome se l'avessero figliato le suecavalleed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! -
Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessunoma tutti quellidella fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per luipoiché era unragazzo servizievolee ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui.La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimoed ei la ricambiava conbei panierini di vimini per le ovaarcolai di cannaed altre coserelle. -Facciamo come fanno le sue bestie- diceva la gnà Lia- che si grattano ilcollo a vicenda -.
A Tebidi tutti lo conoscevano da piccoloche non si vedeva fra le code deicavalliquando pascolavano nel piano del lettighiereed era cresciutosi puòdiresotto i loro occhisebbene nessuno lo vedesse maie ramingasse sempre diqua e di là col suo armento! «Era piovuto dal cieloe la terra l'avevaraccolto» come dice il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa néparenti. La sua mamma stava a servire a Vizzinie non lo vedeva altro che unavolta all'annoquando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e ilgiorno in cui era mortaerano venuti a chiamarlo - un sabato sera - che illunedì Jeli tornò alla mandrasicché non ci rimise neppure la giornata; mail povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scapparei puledri nel seminato.
- OhéJeli! - gli gridava allora massaro Agrippino dall'aja; - o che vuoiassaggiare le nerbate delle festefiglio di cagna? - Jeli si metteva a correredietro i puledri sbrancatie li spingeva mogio mogio verso la collina. Peròdavanti agli occhi ci aveva sempre la sua mammacol capo avvolto nel fazzolettobiancoche non parlava più.
Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti di là di Licodia«dove la malaria sipoteva mietere» dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria ipascoli sono grassie le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stavanei campi tutto l'annoo a Donferranteo nelle chiuse della commendao nellavalle del Jacitanoe i cacciatorio i viandanti che prendevano le scorciatoielo vedevano sempre qua e làcome un cane senza padrone. Ei non ci pativaperché era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzipassopassobrucando il trifoglioe cogli uccelli che girovagavano a stormiattornoa luitutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lentosino a chele ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il tempo di veder lenuvole accavallarsi a poco a pocoe figurar monti e vallate; conosceva comespira il vento quando porta il temporalee di che colore sia il nuvolo quandosta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significatoe c'erasempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Cosìverso iltramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambucolacavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamentee stavaanch'essa a guardarlocon i suoi grandi occhi pensierosi.
Dove soffriva soltanto un po' di malinconia era nelle lande deserte diPassanitelloin cui non sorge macchia né arbustoe ne' mesi caldi non ci volaun uccello. I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloniper farsiombra l'un l'altroe nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran lucesilenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore.
Però dove il mangime era abbondantee i cavalli indugiavano volentieriilragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per igrillidelle pipe intagliatee dei panierini di giuncocon quattroramoscelli; sapeva rizzare un po' di tettoiaquando la tramontana spingeva perla valle le lunghe file dei corvio quando le cicale battevano le ali nel soleche abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de'sarmenti di sommaccoche pareva di mangiare delle bruciateo vi abbrustolivale larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa -poiché quando si trovava a Passanitello nell'invernole strade erano cosìcattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passareanima viva.
Don Alfonsoche era tenuto nel cotone dai suoi genitoriinvidiava al suo amicoJeli la tasca di teladove ci aveva tutta la sua robail panele cipolleilfiaschetto del vinoil fazzoletto pel freddoil batuffoletto dei cenci colrefe e gli aghi rossila scatoletta di latta coll'esca e la pietra focaja; gliinvidiava pure la superba cavalla vajataquella bestia dal ciuffetto di peliirti sulla fronteche aveva gli occhi cattivie gonfiava le froge al pari diun mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla.
Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa el'andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.
- Lascia stare la vajata- gli raccomandava Jeli- non è cattivama non ticonosce -.
Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che avevacomprato a San Giovannicol patto che gliela tenessero nell'armento sino allavendemmiail puledro zainorimasto orfanonon voleva darsi paceescorrazzava su pei greppi del montecon lunghi nitriti lamentevolie collefroge al vento. Jeli gli correva dietrochiamandolo con forti gridae ilpuledro si fermava ad ascoltarecol collo teso e le orecchie irrequietesferzandosi i fianchi colla coda. - È perché gli hanno portato via la madreenon sa più cosa si faccia - osservava il pastore. - Adesso bisogna tenerlod'occhioperché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio.Anch'ioquando mi è morta la mia mammanon ci vedevo più dagli occhi -.
Poidopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglioe a darvi qualcheboccata di malavoglia- Vedia poco a poco comincia a dimenticarsene.
- Ma anch'esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per essere venduti; come gliagnelli nascono per andare al macelloe le nuvole portano la pioggia. Solo gliuccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno -.
Le idee non gli venivano nette e filate l'una dietro l'altraché di rado avevaavuto con chi parlaree perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle infondo alla testadove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntasserofuori a poco a pococome fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anchegli uccelli- soggiunse- devono buscarsi il ciboe quando la neve copre laterra se ne muoiono -.
Poi ci pensò su un pezzetto. - Tu sei come gli uccelli; ma quando arrival'invernote ne puoi stare al fuocosenza far nulla -.
Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuolaa imparare. Jeliallora sgranava gli occhie stava tutto orecchi se il signorino si metteva aleggeree guardava il libro e lui in aria sospettosastando ad ascoltareconquel lieve ammiccar di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nellebestie che più si accostano all'uomo. Gli piacevano i versi che gliaccarezzavano l'udito con l'armonia di una canzone incomprensibilee alle volteaggrottava le cigliaappuntava il mentoe sembrava che un gran lavorìo sistesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capoconun sorriso furboe si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi ascrivere per far vedere quante cose sapeva fareJeli sarebbe rimasto dellegiornate intiere a guardarloe tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiatasospettosa. Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla cartaquelle parole che egli aveva detteo che aveva dette don Alfonsoed anchequelle cose che non gli erano uscite di boccatalché lui finiva per tirarsiindietroincreduloe con un sorriso furbo.
Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrarelo metteva insospettoe pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata.Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che incittà i cavalli andavano in carrozzaegli sarebbe rimasto impassibileconquella maschera d'indifferenza orientale che è la dignità del contadinosiciliano. Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranzacomefosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomentiripeteva: - Io non ne so nulla. - Io sono povero - con quel sorriso ostinato chevoleva essere malizioso.
Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di unpezzetto di carta che aveva trovato chi sa doveperché egli raccattava tuttoquello che vedeva per terrae se l'era messo nel batuffoletto dei cenci. Ungiornodopo di esser stato un po' zittoa guardare di qua e di làsoprappensierogli disse serio serio:
- Io ci ho l'innamorata -.
Alfonsomalgrado che sapesse leggeresgranava gli occhi. - Sì- ripeté Jeli- Marala figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineoinquel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighierelassù.
- O ti mariti dunque?
- Sìquando sarò grande e avrò sei onze all'anno di salario. Mara non ne sanulla ancora.
- Perché non gliel'hai detto? -
Jeli tentennò il capoe si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto espiegò la carta che s'era fatta scrivere.
- È proprio vero che dice Mara; l'ha letto pure don Gesualdoil campiereefra Colaquando venne giù per la cerca delle fave.
- Uno che sappia scrivere- osservò poi- è come uno che serbasse le parolenella scatola dell'acciarinoe potesse portarsele in tascaed anche mandarledi qua e di là.
- Ora che ne farai di quel pezzetto di cartatu che non sai leggere? - glidomandò Alfonso.
Jeli si strinse nelle spallema continuò ad avvolgere accuratamente il suofogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.
La Mara l'aveva conosciuta da bambinache avevano cominciato dal picchiarsi benbeneuna volta che s'erano incontrati lungo il vallonea cogliere le morenelle siepi di rovo. La ragazzinala quale sapeva di essere «nel fatto suo»aveva agguantato pel collo Jelicome un ladro. Per un po' s'erano scambiati deipugni nella schienauno tu ed uno iocome fa il bottaio sui cerchi dellebottima quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a pocotenendosisempre acciuffati.
- Tu chi sei? - gli domandò Mara.
E come Jelipiù selvaticonon diceva chi fosse:
- Io sono Marala figlia di massaro Agrippinoche è il campaio di tuttiquesti campi qui -.
Jeli allora lasciò la presa senza dir nullae la ragazzina si mise araccattare le more che le erano cadute per terrasbirciando di tanto il tantoil suo avversario con curiosità.
- Di là del ponticellonella siepe dell'ortoci son tante more grosse; -aggiunse la piccina- e se le mangiano le galline -.
Jeli intanto si allontanava quatto quattoe Maradopo che stette adaccompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel quercetovolse le spalleanche leie se la diede a gambe verso casa.
Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare lastoppa sul parapetto del ponticelloe Jeli adagio adagio spingeva l'armentoverso le falde del poggio del bandito. Da prima se ne stava in disparteronzandole attornoguardandola da lontano in aria sospettosae a poco a pocoandava accostandosi coll'andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate.Quando finalmente si trovavano accantoci stavano delle lunghe ore senza aprirbocca. Jeli osservando attentamente l'intricato lavorio della calza che la mammaaveva dato in compito alla Maraoppure costei gli vedeva intagliare i bei zigzag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l'uno di qua e l'altro di làsenza dirsi una parolae la bambinacom'era in vista della casasi metteva acorrerefacendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchiesbucciandodei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotto i noci secolarieJeli bacchiava tante delle nociche piovevano fitte come la gragnuola; laragazzina si affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne potevaepoi scappava vialesta lestatenendo tese le due cocche del grembiuledondolandosi come una vecchietta.
Durante l'inverno Mara non osò mettere fuori il nasoin quel gran freddo. Allevolteverso serasi vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeliandava facendo nel piano del lettighiereo sul poggio di Maccaper nonrimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovavadietro un sassoo al riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacerea ciondolare un po' la coda attorno al fuocoe si stringevano fra di loro perstar più caldi.
Col marzo tornarono le allodole nel pianoi passeri sul tettole foglie e inidi nelle siepiMara riprese ad andare a spassoin compagnia di Jelinell'erba sofficetra le macchie in fioresotto gli alberi ancora nudi checominciavano a punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come unsegugioper andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditicoi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto dellacamicia dei piccoli conigli allora stanatiquasi nudima dalle lunghe orecchiediggià inquiete; scorazzavano pei campi al seguito del branco dei cavallientrando nelle stoppie dietro i mietitoripasso passo coll'armentofermandosiogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d'erba. La seragiunti al ponticellose ne andavano l'una di qua e l'altro di làsenza dirsiaddio.
Così passarono tutta l'estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietroil poggio alla crocee i pettirossi gli andavano dietro verso la montagnacomeimbrunivaseguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale nonsi udivano piùe in quell'ora per l'aria si spandeva come una gran malinconia.
In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padreil vaccaroche aveva presola malaria a Ragoletie non poteva nemmen reggersi sull'asino che lo portava.Jeli accese il fuocolesto lestoe corse «alle case» per cercargli qualcheuovo di gallina. - Piuttosto stendi un po' di strame vicino al fuoco- glidisse suo padre- ché mi sento tornare la febbre -.
Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menuseppellito sotto ilsuo gran tabarrola bisaccia dell'asinoe la sacca di Jelitremava come fannole foglie in novembredavanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva ilviso bianco bianco come un morto. I contadini della fattoria venivano adomandargli: - Come vi sentitecompare Menu? - Il poveretto non rispondevaaltro che con un guaitocome fa un cagnuolo di latte. - È malaria di quellache ammazza meglio di una schioppettata - dicevano gli amiciscaldandosi lemani al fuoco.
Fu chiamato anche il medicoma erano tutti denari sprecatiperché la malattiaera di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarlae se lafebbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modocol solfato si sarebbeguarita subito. Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfatomaera come buttarlo nel pozzo. - Prendete un buon decotto di ecalibbiso che noncosta nulla- suggeriva mastro Agrippino- e se non serve a nulla come ilsolfatoalmeno non vi rovinate a spendere -. Si prendeva anche il decotto dieucaliptuseppure la febbre tornava sempreanche più forte. Jeli assisteva ilgenitore come meglio sapeva. Ogni mattinaprima d'andarsene coi puledriglilasciava il decotto preparato nella ciotolail fascio di sarmenti sotto lamanole uova nella cenere caldae tornava presto alla seracolle altre legneper la nottee il fiaschetto di vinoe qualche pezzetto di carne di montoneche era corso a comperare sino a Licodia. Il povero ragazzo faceva ogni cosa congarbocome una brava massaiae suo padreaccompagnandolo cogli occhi stanchinelle sue faccenduole qua e là pel casolaredi tanto in tanto sorridevapensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsiquando fosse rimasto solo.
I giorni in cui la febbre cessava per qualche oracompare Menu si alzava tuttostravolto e col capo stretto nel fazzolettoe si metteva sull'uscio adaspettare Jelimentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadereaccanto all'uscio il fascio della legnae posava sulla tavola il fiasco e leuovaei gli diceva: - Metti a bollire l'ecalibbiso per stanotte -; oppure; -Guarda che l'oro di tua madre l'ha in consegna la zia Agataquando non ci saròpiù io -. E Jeli diceva di sì col capo.
- È inutile - ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vederecompare Menu colla febbre. - Il sangue oramai è tutto una peste -. Compare Menuascoltava senza batter palpebracol viso più bianco della sua berretta.
Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavanole forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compareMenu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suoragazzo furono:
- Quando sarò mortoandrai dal padrone delle vacchea Ragoletie ti faraidare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questaparte.
- No- rispose Jeli- sono soltanto due onze e quindiciperché avetelasciato le vacche che è più di un mesee bisogna fare il conto giusto colpadrone.
- È vero! - affermò compare Menu socchiudendo gli occhi.
- Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarritoche se lo possonomangiare i lupi! - pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero diLicodia.
Mara era venuta a vedere anche lei la casa del mortocolla curiosità inquietache destano le cose spaventose.
- Vedi come son rimasto? - le disse Jeli.
La ragazzetta si tirò indietro sbigottitaper paura che non la facesse entrarenella casa dove era stato il morto.
Jeli andò a riscuotere il danaro del babboe se ne partì coll'armento perPassanitellodove l'erba era già alta sul terreno lasciato pel maggesee ilmangime era abbondante; perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per moltotempo. Frattanto Jeli s'era fatto grandeed anche Mara doveva esser cresciutapensava egli soventementre suonava il suo zufolo; poi quando tornò a Tebididopo tanto tempospingendosi innanzi adagio adagio le giumente per i viottolisdrucciolevoli della fontana dello zio Cosimoandava cercando cogli occhi ilponticello del vallonee il casolare nella valle del Jacitanoe il tetto dellecase grandisu cui svolazzavano sempre i colombi. Ma in quel tempo il padroneaveva licenziato massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara stavasoleggiando. Jeli trovò la ragazzala quale s'era fatta grandicella ebellocciaalla porta del cortileche teneva d'occhio la sua robamentre lacaricavano sulla carretta. Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicatadel solito. La tavolae il lettoe il cassettonee le immagini della Verginee di San Giovannie fino i chiodi per appendervi le zucche delle sementiciavevano lasciato il segno sulle pareti dove erano state per tanti anni. -Andiamo via- gli disse Mara come lo vide osservare. - Ce ne andiamo laggiù aMarineodove c'è quel gran casamentonella pianura -.
Jeli si diede ad aiutare massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare lacarrettae allorché non ci fu altro da portare via dalla stanzaandò asedere con Mara sul parapetto dell'abbeveratojo. - Anche le case- le dissequand'ebbe visto accatastare l'ultima cesta sulla carretta- anche le casecome se ne toglie via la loro robanon sembrono più quelle.
- A Marineo- rispose Mara- ci avremo una camera più bellaha detto lamammae grande come il magazzino dei formaggi.
- Ora che tu sarai vianon voglio venirci più qui; ché mi parrà di essertornato l'invernoa veder quell'uscio chiuso.
- A Marineo invece troveremo dell'altra gentePudda la rossae la figlia delcampiere; si starà allegriper la messe verranno più di ottanta mietitoricolla cornamusae si ballerà sull'aja -.
Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carrettaMara correvaloro dietro tutta allegraportando il paniere coi piccioni. Jeli volleaccompagnarla sino al ponticelloe quando Mara stava per scomparire nellavallata la chiamò: - Mara! ohMara!
- Che vuoi? - disse Mara.
Egli non lo sapeva che voleva. - O tucosa farai qui tutto solo? - gli domandòallora la ragazza.
- Io resto coi puledri -.
Mara se ne andò saltellandoe lui rimase lì fermofinché poté udire ilrumore della carretta che rimbalzava sui sassi. Il sole toccava le rocce altedel poggio alla crocele chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscoloeper la campagna vastalontan lontanonon si udiva altro che il campanacciodella bianca nel silenzio che si allargava.
Maracome se ne fu andata a Marineoin mezzo alla gente nuovae alle faccendedella vendemmiasi scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a leiperché nonaveva altro da farenelle lunghe giornate che passava a guardare la coda dellesue bestie. Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valledi là delponticelloe nessuno lo vedeva più alla fattoria. In tal modo ignorò per unpezzo che Mara si era fatta sposagiacché dell'acqua intanto ne era passata epassata sotto il ponticello. Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festadi San Giovannicome andò alla fiera coi puledri da vendere: una festa che glisi mutò tutta in velenoe gli fece cascar il pan di boccaper un accidentetoccato ad uno dei puledri del padroneDio ne scampi.
Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'albaandando su egiù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei mulimessiin fila di qua e di là dello stradone. La fiera era già sul finirené Jelispuntava ancora colle bestiedi là del gomito che faceva lo stradone. Sullependici riarse del calvario e del mulino a ventorimaneva tuttora qualchebranco di pecorestrette in cerchio col muso a terra e l'occhio spentoequalche pariglia di buoi dal pelo lungodi quegli che si vendono per pagare ilfitto delle terreche aspettavano immobilisotto il sole cocente. Laggiùverso la vallela campana di San Giovanni suonava la messa grandeaccompagnatadal lungo crepitìo dei mortaletti. Allora il campo della fiera sembravatrasaliree correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconischierate nella salita dei Galliscendeva per le vie del paesee sembravaritornare dalla valle dov'era la chiesa. - Viva San Giovanni! - Santo diavolone!- strillava il fattore- quell'assassino di Jeli mi farà perdere la fiera! -
Le pecore levavano il muso attonitoe si mettevano a belare tutte in una voltae anche i buoi facevano qualche passo lentamenteguardando in girocon grandiocchi intenti.
Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fittodelle chiuse grandi«come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo»dicevail contrattoe a completare la somma si era fatto assegnamento sulla venditadei puledri. Intanto di puledrie cavallie mulice n'erano quanti il Signorene aveva fattitutti strigliati e lucentie ornati di fiocchie nappineesonagliche scodinzolavano per scacciare la noiae voltavano la testa versoognuno che passavacome aspettassero un'anima caritatevole che volessecomprarli.
- Si sarà messo a dormirequell'assassino! - seguita a gridare il fattore; - emi lascia i puledri sulla pancia! -
Invece Jeli aveva camminato tutta la notteacciocché i puledri arrivasserofreschi alla fierae prendessero un buon posto nell'arrivareed era giunto alpiano del corvo che ancora i tre re non erano tramontatie luccicavano sulmonte Arturocolle braccia in croce. Per la strada passavano continuamentecarrie gente a cavalloche andavano alla festa; per questo il giovanettoteneva ben aperti gli occhiacciò i puledrispaventati dall'insolito via vainon si sbandasseroma andassero uniti lungo il ciglione della stradadietro labianca che camminava diritta e tranquillacol campanaccio al collo. Di tanto intantoallorché la strada correva sulla sommità delle collinesi udiva sinlassù la campana di San Giovanniche anche nel bujo e nel silenzio dellacampagna arrivava la festae per tutto lo stradonelontan lontanosin dovec'era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzinisi udiva gridare: - VivaSan Giovanni! - e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti dellaCanziriacome le stelle che piovono in agosto.
- È come la notte di Natale! - andava dicendo Jeli al ragazzo che l'aiutava acondurre il branco- che in ogni fattoria si fa festa e luminariae per tuttala campagna si vedono qua e là dei fuochi -.
Il ragazzo sonnecchiavaspingendo adagio adagio una gamba dietro l'altrae nonrispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quellacampananon poteva star zittocome se ognuno di quei razzi che strisciavanosul bujo taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall'anima.
- Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni- diceva- perché civa tutti gli anni -.
E senza curarsi che Alfioil ragazzonon rispondesse nulla:
- Tu non sai? ora Mara è alta cosìche è più grande di sua madre che l'hafattae quando l'ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessacon cui si andava a cogliere i fichidindiae a bacchiare le noci -.
E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva.
- O Alfioche dormi? - gli gridò quando ebbe finito. - Bada che la bianca tivien sempre dietrobada!
- Nonon dormo! - rispose Alfio con voce rauca.
- La vedi la puddarache sta ad ammiccarci lassùverso Granvillacomesparassero dei razzi anche a Santa Domenica? Poco può passare a romper l'alba;pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto. Ehimorellinobello! che ci avrai la cavezza nuovacolle nappine rosseper la fiera! e anchetustellato!
Così andava parlando all'uno e all'altro dei puledriperché si rinfrancasserosentendo la sua voce al bujo. Ma gli doleva che lo stellato e il morellinoandassero alla fiera per esser venduti.
- Quando saran vendutise ne andranno col padrone nuovoe non si vedranno piùnella mandriacom'è stato di Maradopo che se ne fu andata a Marineo.
- Suo padre sta benone laggiù a Marineo; ché quando andai a trovarli mi miserodinanzi panevinoformaggioe ogni ben di Dioperché egli è quasi ilfattoreed ha le chiavi di ogni cosae avrei potuto mangiarmi tutta lafattoriase avessi voluto. Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non mivedeva! e si mise a gridare: «Oh! guarda! è Jeliil guardiano dei cavalliquello di Tebidi!». Gli è come quando uno torna da lontanoche al vederesoltanto il cocuzzolo di un montegli basta a riconoscere subito il paese doveè cresciuto. La gnà Lia non voleva che le dessi più del tualla Maraorache sua figlia si è fatta grandeperché la gente che non sa nullachiacchiera facilmente. Mara invece ridevae sembrava che avesse infornato ilpane allora alloratanto era rossa; apparecchiava la tavolae spiegava latovaglia che non pareva più quella. «O che ti rammenti più di Tebidi?» lechiesi appena la gnà Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte.«Sìsìme ne rammento»mi disse ella «a Tebidi c'era la campanacolcampanile che pareva un manico di salierae si suonava dal ballatoioe c'eranopure due gatti di sassoche facevano le fusa sul cancello del giardino». Io mele sentivo qui dentro tutte quelle cosecome ella andava dicendole. Mara miguardava da capo a piedi con tanto d'occhie tornava a dire: «Come ti seifatto grande!» e si mise pure a rideree mi diede uno scapaccione quisullatesta -.
In tal modo Jeliil guardiano dei cavalliperdette il paneperché giusto inquel punto sopravveniva all'improvviso una carrozza che non si era udita primamentre saliva l'erta passo passoe si era messa al trotto com'era giunta alpianocon gran strepito di frusta e di sonagliquasi la portasse il diavolo. Ipuledrispaventatisi sbandarono in un lampoche pareva un terremotoe ce nevollero delle chiamatee delle grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e delragazzo prima di raccoglierli attorno alla biancala quale anch'essatrotterellava svogliatamentecol campanaccio al collo. Appena Jeli ebbe contatole sue bestiesi accorse che mancava lo stellatoe si cacciò le mani neicapelliperché in quel posto la strada correva lungo il burronee fu nelburrone che lo stellato si fracassò le reniun puledro che valeva dodici onzecome dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando Jeli andava chiamando ilpuledro - ahu! ahu! ahu! - che non ci si vedeva ancora. Lo stellato risposefinalmente dal fondo del burronecon un nitrito dolorosocome avesse avuto laparolapovera bestia!
- Oh! mamma mia! - andavano gridando Jeli e il ragazzo. - Oh! che disgraziamamma mia! -
I viandanti che andavano alla festae sentivano piangere a quel modo in mezzoal buiodomandavano cosa avessero persoe poicome sapevano di che sitrattavaandavano per la loro strada.
Lo stellato rimaneva immobile dove era cadutocolle zampe in ariae mentreJeli l'andava tastando per ogni dovepiangendo e parlandogli quasi avessepotuto farsi intenderela povera bestia rizzava il collo penosamentee voltavala testa verso di luiche si udiva l'anelito rotto dallo spasimo.
- Qualche cosa si sarà rotto! - piagnucolava Jelidisperato di non potervedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere ilcapo di peso. Alfio rimasto sulla strada a custodia del brancos'erarasserenato per il primoe aveva tirato fuori il pane dalla sacca. Ora il cielos'era fatto bianchiccioe i monti tutto intorno parevano che spuntassero ad unoad unoneri ed alti. Dalla svolta dello stradone si cominciava a scorgere ilpaesecol monte del calvario e del mulino a vento stampato sull'alboreancorafoschiseminati dalle chiazze bianche delle pecoree come i buoi chepascolavano sul cocuzzolo del montenell'azzurroandavano di qua e di làsembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita. Lacampanadal fondo del burronenon si udiva piùi viandanti si erano fattipiù rarie quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera. Ilpovero Jeli non sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine: lo stessoAlfioda solonon poteva giovargli per niente; perciò costui andavasbocconcellando pian piano il suo pezzo di pane.
Finalmente si vede venire a cavallo il fattoreil quale da lontano stripitava ebestemmiava accorrendoal vedere gli animali fermi sulla stradasicché lostesso Alfio se la diede a gambe per la collina. Ma Jeli non si mosse d'accantoallo stellato. Il fattore lasciò la mula sulla stradae scese nel burroneanche luicercando di aiutare il puledro ad alzarsie tirandolo per la coda. -Lasciatelo stare! - diceva Jelibianco in viso come se si fosse fracassate lereni lui. - Lasciatelo stare! Non vedete che non si può muoverepovera bestia?-
Lo stellato infatti ad ogni movimentoe ad ogni sforzo che gli facevano faremetteva un rantolo che pareva un cristiano. Il fattore si sfogava a calci escapaccioni su di Jelie tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso.Allora Alfio più rassicurato era tornato sulla stradaper non lasciare lebestie senza custodiae badava a scolparsi dicendo:
- Io non ci ho colpa. Io andavo innanzi colla bianca.
- Qui non c'è più nulla da fare- disse alfine il fattoredopo che sipersuase che era tutto tempo perso. - Qui non se ne può prendere altro che lapellefinch'è buona -.
Jeli si mise a tremare come una fogliaquando vide il fattore andare a staccarelo schioppo dal basto della mula. - Levati di lìpaneperso! - gli urlò ilfattore- che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quelpuledro che valeva assai più di tecon tutto il battesimo porco che ti diedequel prete ladro! -
Lo stellatonon potendosi muoverevolgeva il capo con grandi occhi sbarratiquasi avesse inteso ogni cosae il pelo gli si arricciava ad ondelungo lecostole; sembrava ci corresse sotto un brivido. In tal modo il fattore uccisesul luogo lo stellatoper cavarne almeno la pellee il rumore fiacco che fecedentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselodentro di sé.
- Orase vuoi sapere il mio consiglio- gli lasciò detto il fattore- cercadi non farti vedere più dal padrone per quel salario che avanziperché te lopagherebbe salato assai! -
Il fattore se ne andò insieme ad Alfiocogli altri puledri che non sivoltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo stellatoe andavano strappandol'erba dal ciglione. E lo stellato rimase solo nel burroneaspettando chevenissero a scuoiarlocogli occhi ancora spalancatie le quattro zampedistesebeato luiche non penava più infine.
Jeliora che aveva visto con qual ceffo il fattore aveva preso di mira ilpuledro e tirato il colpomentre la povera bestia volgeva la testa penosamentequasi avesse il giudiziosmise di piangeree se ne stette a guardare lostellatoduro duroseduto sul sassofin quando arrivarono gli uomini chedovevano prendersi la pelle.
Adesso poteva andarsene a spassoa godersi la festao starsene in piazza tuttoil giornoa vedere i galantuomini nel casinocome meglio gli piacevaché nonaveva più né panené tettoe bisognava cercarsi un padronese purequalcuno lo volevadopo la disgrazia dello stellato.
Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padronecollasacca ad armacollo e il bastone in manola banda suonava in piazzaallegramentecoi pennacchi sul cappelloin mezzo a una folla di berrettebianche fitte come le moschee i galantuomini stavano a godersela seduti nelcasino. Tutta la gente era vestita da festacome gli animali della fierae inun canto della piazza c'era una donna colla gonnella corta e le calze color dicarne che pareva colle gambe nudee picchiava sulla gran cassadavanti a ungran lenzuolo dipintodove si vedeva una carneficina di cristianicol sangueche colava a fiumie nella folla che stava a guardare a bocca aperta c'era puremassaro Colail quale conosceva Jeli da quando stava a Passanitelloe glidisse che il padrone glielo avrebbe trovato luipoiché compare Isidoro Maccacercava un guardiano per i porci. - Però non dir nulla dello stellato- gliraccomandò massaro Cola. - Una disgrazia come quella può accadere a tuttinelmondoma è meglio non parlarne -.
Andarono perciò a cercare compare Maccail quale era al balloe nel tempo chemassaro Cola entrò a fare l'ambasciataJeli aspettò sulla stradain mezzoalla folla che stava a guardare dalla porta della bottega. Nella stanzacciac'era un mondo di genteche saltava e si divertivatutti rossi e scalmanatiefacevano un gran pestare di scarponi sull'ammattonatoche non si udiva nemmenoil ron-ron del contrabassoe appena finiva una suonatache costava un granolevavano il dito per far segno che ne volevano un'altra; e quello delcontrabasso faceva una croce col carbone sulla pareteper memoriae cominciavada capo. - Questi li spendono senza pensarci- s'andava dicendo Jeli- e vuoldire che hanno la tasca pienae non sono in angustia come meper difetto di unpadronese sudano e s'affannano a saltare per loro piacerequasi fossero presia giornata! - Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno dinulla. Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio.
Ma stava di casa verso Sant'Antoniodove le case s'arrampicano sul montedifronte al vallone della Canziriatutto verde di fichidindiae colle ruote deimulini che spumeggiavano in fondonel torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio diandare da quelle partiora che non l'avevano voluto nemmeno per guardare iporci e girandolando in mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senzacurarsi di luigli pareva di essere più solo di quando era coi puledri nellelande di Passanitelloe si sentiva voglia di piangere. Finalmente massaroAgrippino lo incontrò nella piazzache andava di qua e di là colle bracciaciondolonigodendosi la festae cominciò a gridargli dietro: - Oh Jeli! oh! -e se lo menò a casa. Mara era in gran galacon tanto d'orecchini che lesbattevano sulle guancee stava sull'usciocolle mani sulla panciacariched'anelliad aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi. - Oh! - glidisse Mara- sei venuto anche tu per la festa di San Giovanni! -
Jeli veramente non osava entrareperché era vestito male; però massaroAgrippino lo spinse per le spalledicendogli che non si vedevano allora per laprima voltae che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri delpadrone. La gnà Lia gli versò un bel bicchiere di vinoe vollero condurlo conloro a veder la luminariainsieme alle comari ed ai vicini.
Arrivando in piazzaJeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia: tutta quantaera un mare di fuococome quando s'incendiano le stoppieper il gran numero dirazzi che i devoti accendevano in cospetto del santoil quale stava a goderselidall'imboccatura del Rosariotutto nero sotto il baldacchino d'argento. Idevoti andavano e venivano fra le fiamme come tanti diavolie c'era persino unadonna discintaspettinatacogli occhi fuori della testache accendeva i razzianch'essae un prete colla sottana in ariasenza cappelloche pareva unossesso dalla devozione.
- Quello lì è il figliuolo di massaro Neriil fattore della Saloniae spendepiù di dieci lire di razzi! - diceva la gnà Liaaccennando a un giovinottoche andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle manicomedue candelesicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhie gligridavano: - Viva San Giovanni.
- Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame- aggiunsemassaro Agrippino.
Mara sapeva pure che aveva portato lo stendardo grande nella processionee loreggeva diritto come un fusotanto era forte e bel giovane.
Il figlio di massaro Neri pareva che sentisse quei discorsie accendesse irazzi per la Marafacendo la ruota dinanzi a lei; tanto che dopo i fuochi siaccompagnò con loroe li condusse al balloe al cosmoramadove si vedeva ilmondo vecchio e il mondo nuovopagando luibenintesoanche per Jeliil qualeandava dietro la comitiva come un cane senza padronea veder ballare il figliodi massaro Neri colla Marala quale girava in tondo e si accoccolava come unacolombella in amoree teneva tesa con bel garbo una cocca del grembiale. Ilfiglio di massaro Neriluisaltava come un puledrotanto che la gnà Liapiangeva dalla consolazionee massaro Agrippino faceva cenno di sì col capoche la cosa andava bene.
Infinequando furono stanchise ne andarono di qua e di là nel passeggiotrascinati dalla folla quasi fossero in mezzo a una fiumanaa vedere itrasparenti illuminatidove tagliavano il collo a San Giovanniche avrebbefatto pietà agli stessi turchie il santo sgambettava come un capriuolo sottola mannaia. Lì vicino c'era la banda che suonavasotto un gran paracqua dilegno tutto illuminatoe nella piazza una folla tanto stipata che mai s'eranovisti tanti cristiani a una fiera.
Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorinae gliparlava nell'occhioe rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne potevapiù dalla stanchezzae si mise a dormire seduto sul marciapiedefin quando losvegliarono i primi petardi del fuoco d'artifizio. In quel momento Mara erasempre al fianco del figlio di massaro Nerigli si appoggiava colle due maniintrecciate sulla spallae al lume dei fuochi colorati sembrava ora tuttabianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi inmucchioil figlio di massaro Nerisi voltò verso di leibianca in visoe lediede un bacio.
Jeli non disse nullama in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festache aveva goduto sin allorae tornò a pensare a tutte le sue disgraziechegli erano uscite di mente - e che era rimasto senza padronee che non sapevapiù che fare né dove andaree che non aveva più né pane né tetto-insomma che era meglio andare a buttarsi nel burronecome lo stellatoche selo mangiavano i cani a quell'ora.
Intanto attorno a lui la gente era allegra. Mara colle compagne saltavaecantava per la stradicciuola sassosamentre tornavano a casa.
- Buona notte! Buona notte! - andavano dicendo le compagnea misura che silasciavano per la strada.
Mara dava la buona notteche pareva che cantassetanta contentezza ci avevanella vocee il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio imbestialito e nonvolesse lasciarla piùmentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavanonell'aprire l'uscio di casa. Nessuno badava a Jelisoltanto massaro Agrippinosi rammentò di luie gli chiese:
- Ed ora dove andrai?
- Non lo so- disse Jeli.
- Domani vieni a trovarmie t'aiuterò a cercar d'allogarti. Per stanotte tornain piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualchepanchetta lo troveraie a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo -.
Sì che c'era avvezzoma quello che gli dava maggior pena era che Mara non glidicesse nullae lo lasciasse a quel modo sull'uscio come un pezzente; tanto cheglielo disseil giorno dopoappena poté trovarla in casa un momento sola:
- Ohgnà Mara! come li scordate gli amici!
- Ohsei tu Jeli? - disse Mara. - Noio non ti ho scordato. Ma ero cosìstanca dopo i fuochi!
- Gli volete bene almenoal figlio di massaro Neri? - chiese lui voltando erivoltando il bastone fra le mani.
- Che discorsi andate facendo! - rispose bruscamente la gnà Mara. - Mia madreè di là che sente tutto -.
Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla Saloniadov'erafattore massaro Nerima siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovettecontentare di un salario assai magro.
Adesso badava alle sue pecoree ad imparare come si fa il formaggioe laricottae il caciocavalloe ogni altro frutto di mandra; ma fra le chiacchiereche correvano alla sera nel cortile tra gli altri pastori e contadinimentre ledonne sbucciavano le fave della minestrase si veniva a parlare del figlio dimassaro Neriil quale si prendeva in moglie Mara di massaro AgrippinoJeli nondiceva più nullae nemmeno osava di aprir bocca. Una volta che il campaio lomotteggiòdicendogli che Mara non aveva voluto saperne più di luidopo chetutti avevano detto che sarebbero stati marito e moglieJeli che badava allapentola in cui bolliva il latterispose facendo sciogliere il caglio adagioadagio:
- Ora Mara si è fatta più bella col crescereche sembra una signora -.
Però siccome egli era paziente e laboriosoimparò presto ogni cosa delmestiere meglio di uno che ci fosse natoe siccome era avvezzo a star collebestieamava le sue pecore come se le avesse fatte luie quindi il male allaSalonia non faceva tanta stragee la mandra prosperava ch'era un piacere permassaro Neritutte le volte che veniva alla fattoriatanto che ad anno nuovosi persuase ad indurre il padrone perché aumentasse il salario di Jelisicchécostui venne ad avere quasi quello che prendeva col fare il guardiano deicavalli. Ed erano danari bene spesiché Jeli non badava a contar le miglia ele miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animalie se le pecorefigliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisaccedell'asinelloe si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla facciacol muso fuori del saccoe gli poppavano le orecchie. Nella nevigata famosadella notte di Santa Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel lago morto allaSaloniae tutto all'intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro pertutta la campagnacome venne il giorno. - Quella volta sarebbe stata la rovinadi massaro Nericome fu per tanti altri del paesese Jeli non si fosse alzatonella notte tre o quattro volte a cacciare le pecore pel chiusocosì le poverebestie si scuotevano la neve di dossoe non rimasero seppellite come tante cene furono nelle mandre vicine - a quel che disse massaro Agrippino quando vennea dare un'occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla Saloniae dissepure che di quell'altra storia del figlio di massaro Neriil quale dovevasposare sua figlia Maranon era vero nienteché Mara aveva tutt'altro per ilcapo.
- Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale! - disse Jeli.
- Non vero nientenon dovevano sposare nessuno! tutte chiacchiere di genteinvidiosa che si immischia negli affari altrui! - rispose massaro Agrippino.
Però il campaioil quale la sapeva più lungaper averne sentito parlare inpiazzaquando andava in paese la domenicaraccontò invece la cosa tale equale com'eradopo che massaro Agrippino se ne fu andato: non si sposavano piùperché il figlio di massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippinose la intendeva con don Alfonsoil signorinoil quale aveva conosciuta Mara dapiccola; e massaro Neri aveva detto che il suo ragazzo voleva che fosse onoratocome suo padree delle corna in casa non le voleva altre che quelle dei suoibuoi.
Jeli era lì presente anche luiseduto in circolo cogli altri a colazionee inquel momento stava affettando il pane. Egli non disse nullama l'appetito gliandò via per quel giorno.
Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Maraquando eraragazzinache stavano insieme tutto il giorno e andavano nella valle delJacitano e sul poggio alla croceed ella stava a guardarlo col mento in ariamentre egli si arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensavaanche a don Alfonsoil quale veniva a trovarlo dalla villa vicinae sisdraiavano bocconi sull'erba a stuzzicare con un fuscellino i nidi di grilli.Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed oreseduto sull'orlo delfossatotenendosi i ginocchi fra le bracciae i noci alti di Tebidie lefolte macchie dei vallonie le pendici delle colline verdi di sommacchie gliulivi grigi che si addossavano nella valle come nebbiae i tetti rossi delcasamentoe il campanile «che sembrava un manico di saliera» fra gli arancidel giardino. - Qui la campagna gli si stendeva dinanzi brulladesertachiazzata dall'erba riarsasfumando silenziosa nell'afa lontana.
In primaveraappena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capoMaravenne alla Salonia col babbo e la mammae il ragazzo e l'asinelloaraccogliere le favee tutti insieme vennero a dormire alla fattoria pei due otre giorni che durò la raccolta. Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina eserae spesso sedevano accanto al muricciolo dell'ovilea discorrere insiemementre il ragazzo contava le pecore.
- Mi pare d'essere a Tebidi- diceva Mara- quando eravamo piccolie stavamosul ponticello della viottola -.
Jeli si rammentava di ogni cosa anche luisebbene non dicesse nullaperchéera stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole.
Finita la raccoltaalla vigilia della partenzaMara venne a salutare ilgiovanottonel tempo che ei stava facendo la ricottaed era tutto intento araccogliere il siero colla cazza.
- Ora ti dico addio- gli disse ella- poiché domani torniamo a Vizzini.
- Come sono andate le fave?
- Male sono andate! la lupa le ha mangiate tuttequest'anno.
- Dipende dalla pioggia che è stata scarsa- disse Jeli. - Figurati che si èdovuto uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta laSalonia non venne tre dita di erba.
- Ma a te poco te ne importa. Il salario l'hai semprebuona o mal'annata!
- Sìè vero- disse lui; - ma mi rincresce dare quelle povere bestie in manoal beccaio.
- Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovannied eri rimastosenza padrone?
- Sìme lo ricordo.
- Fu mio padre che ti allogò quida massaro Neri.
- E tu perché non l'hai sposato il figlio di massaro Neri?
- Perché non c'era la volontà di Dio. - Mio padre è stato sfortunato-riprese di lì a poco. - Dacché ce ne siamo andati a Marineo ogni cosa ci èriuscita male. La favail seminatoquel pezzetto di vigna che ci abbiamolassù. Poimio fratello è partito soldatoe ci è morta pure una mula chevaleva quarant'onze.
- Lo so- rispose Jeli- la mula baia!
- Ora che abbiamo perso la robachi vuoi che mi sposi? -
Mara andava sminuzzando uno sterpolino di prunomentre parlavacol mento sulsenoe gli occhi bassie col gomito stuzzicava un po' il gomito di Jelisenzabadarci. Ma Jelicogli occhi sulla zangola anche luinon rispondeva nulla;sicché ella riprese:
- A Tebidi dicevano che saremmo stati marito e moglielo rammenti?
- Sì- disse Jelie posò la cazza sull'orlo della zangola. - Ma io sono unpovero pecoraioe non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu -.
La Mara rimase un pochino zitta e poi disse:
- Se tu mi vuoiio per me ti piglio volentieri.
- Davvero?
- Sìdavvero.
- E massaro Agrippino cosa dirà?
- Mio padre dice che ora il mestiere lo saie tu non sei di quelli che vanno aspendere il loro salarioma di un soldo ne fai duee non mangi per nonconsumare il panecosì arriverai ad aver delle pecore anche tue ti farairicco.
- Se è così- conchiuse Jeli- ti piglio volentieri anch'io.
- To'! - gli disse Maracome si era fatto buioe le pecore andavano tacendosia poco a poco- se vuoi un bacio adesso te lo dopoiché saremo marito emoglie -.
Jeli se lo prese in santa pacee non sapendo che dire aggiunse:
- Io t'ho sempre voluto beneanche quando volevi lasciarmi pel figlio dimassaro Neri... - Ma non ebbe cuore di dirgli di quell'altro.
- Non lo vedi? eravamo destinati! - conchiuse Mara.
Massaro Agrippino infatti disse di sìe la gnà Lia mise insieme presto ungiubbone nuovoe un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella efresca come una rosacon quella mantellina bianca che sembrava l'agnellopasqualee quella collana d'ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeliquando andava per le strade al fianco di leicamminava impalatotutto vestitodi panno e di velluto nuovoe non osava soffiarsi il naso col fazzoletto diseta rossoper non farsi scorgere; ma i vicini e tutti quelli che sapevano lastoria di don Alfonso gli ridevano sul naso. Quando Mara disse sissignoree ilprete gliela diede in moglie con un gran crocioneJeli se la condusse a casaegli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonnae tutte le terre cheaveva visto cogli occhi.
- Ora che siamo marito e moglie- le disse giunti a casaseduto di faccia aleie facendosi piccino piccino- ora che siamo marito e moglieposso dirteloche non mi par vero che tu m'abbia voluto... mentre avresti potuto prendernetanti meglio di me... così bella come tu sei!... -
Il poveraccio non sapeva dirle altroe non capiva nei panni nuovi dallacontentezza di vedersi Mara per casache rassettava e toccava ogni cosaefaceva la padrona. Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall'uscio pertornarsene alla Salonia; quando fu venuto il lunedìindugiava nell'assettaresul basto dell'asinello le bisaccee il tabarroe il paracqua d'incerata.
- Tu dovresti venirtene alla Salonia anche te! - disse alla moglie che stava aguardarlo dalla soglia. - Tu dovresti venirtene con me -.
Ma la donna si mise a rideree gli rispose che ella non era nata a far lapecoraiae non aveva nulla da andare a farci alla Salonia.
Infatti Mara non era nata a far la pecoraiae non ci era avvezza allatramontana di gennaioquando le mani si irrigidiscono sul bastonee sembra chevi caschino le unghiee ai furiosi acquazzoniin cui l'acqua vi penetra finoalle ossae alla polvere soffocante delle stradequando le pecore camminanosotto il sole cocentee al giaciglio duro e al pane muffitoe alle lunghegiornate silenziose e solitariein cui per la campagna arsa non si vede altrodi lontanorare volteche qualche contadino nero dal soleil quale si spingeinnanzi silenzioso l'asinelloper la strada bianca e interminabile. Almeno Jelisapeva che Mara stava al caldo sotto le coltrio filava davanti al fuocoincrocchio colle vicineo si godeva il sole sul ballatoiomentre egli tornavadal pascolo stanco ed assetatoo fradicio di pioggiao quando il ventospingeva la neve dentro il casolaree spegneva il fuoco di sommacchi. Ogni meseMara andava a riscuotere il salario dal padronee non le mancavano né le uovanel pollaioné l'olio nella lucernané il vino nel fiasco. Due volte al mesepoi Jeli andava a trovarlaed ella lo aspettava sul ballatoiocol fuso inmano; poi quando gli aveva legato l'asino nella stalla e toltogli il basto emessogli la biada nella greppiae riposta la legna sotto la tettoia nelcortileo quel che portava in cucinaMara l'aiutava ad appendere il tabarro alchiodoe a togliersi le gambiere fradicedavanti al focolaree gli versava ilvinomentre la minestra bolliva allegramenteed ella apparecchiava il descocheta cheta e previdente come una brava massaianel tempo stesso che gliparlava di questo e di quellodella chioccia che aveva messo a covaredellatela che era sul telaiodel vitello che allevavanosenza dimenticare una soladelle faccenduole di casaché Jeli si sentiva di starci come un Papa.
Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolitache tutti i lumierano spenti nella stradicciuolae l'orologio della città suonava lamezzanotte. Una notte da lupiche proprio il lupo gli era entrato in casamentre lui andava all'acqua e al vento per amor del salarioe della giumentadel padrone ch'era ammalatae ci voleva il maniscalco subito subito. Bussò etempestò all'usciochiamando Mara ad alta vocementre l'acqua gli piovevaaddosso dalla grondaiae gli usciva dalle calcagna. Sua moglie venne adaprirgli finalmentee cominciò a strapazzarlo quasi fosse stata lei ascorrazzare pei campi con quel tempacciocon una faccia che lui chiese: - Chec'è? Cos'hai?
- Ho che m'hai fatto paura a quest'ora! che ti par ora da cristiani questa?Domani sarò ammalata!
- Va a coricartiil fuoco l'accendo io.
- Nobisogna che vada a prender la legna.
- Andrò io.
- Noti dico! -
Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse:
- Perché hai aperto l'uscio del cortile? Non ce n'era più di legna in cucina?
- Nosono andata a prenderla sotto la tettoja -.
Ella si lasciò baciarefredda freddae volse il capo dall'altra parte.
- Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l'uscio- dicevano i vicini-quando in casa c'è il tordo! -
Ma Jeli non sapeva nullach'era becconé gli altri si curavano di dirglieloperché a lui non gliene importava nientee s'era accollata la donna col dannodopo che il figlio di massaro Neri l'aveva piantata per aver saputo la storia didon Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperioes'ingrassava come un maiale«ché le corna sono magrema mantengono la casagrassa!».
Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in facciauna volta chevennero alle brutteper certe pezze di formaggio tosate. - Ora che don Alfonsovi ha preso la moglievi pare di essere suo cognatoe avete messo superbia chevi par di esser un re di coronacon quelle corna che avete in testa -.
Il fattore e il campaio si aspettavano di veder scorrere il sangue allora; mainvece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suocon una faccia di grullo chele corna gli stavano bene davvero.
Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della fattoriaa confessarsicolla speranza che pel timor di Dio non rubassero più. Jeliandò anche luie all'uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse lemale parole e gli buttò le braccia al collo dicendogli:
- Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te perquelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importanulla di quello che mi hai detto nella collera -.
Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome Corna d'oroe il soprannomegli rimasea lui e tutti i suoianche dopo che ci si lavò le cornanelsangue.
La Mara era andata a confessarsi anche leie tornava di chiesa tutta raccoltanella mantellinacogli occhi bassi che sembrava una Santa Maria Maddalena. Jeliche l'aspettava taciturno sul ballatoiocome la vide venire a quel modoche sivedeva come ci avesse il Signore in corpola stava a guardare pallido pallidodai piedi alla testaquasi la vedesse per la prima voltao gliela avesserocambiatala sua Marae neppure osava alzare gli occhi su di leimentre ellasciorinava la tovagliae metteva in tavola le scodelletranquilla e pulita alsuo solito. Eglidopo averci pensato su un pocole domandò freddo freddo:
- È vero che te la intendi con don Alfonso? -
Mara gli piantò in faccia i suoi begli occhi limpidie si fece il segno dellacroce.
- Perché volete farmi far peccato in questo giorno! - esclamò.
- No! non voglio crederci ancora!... perché con don Alfonso eravamo sempreinsiemequando eravamo ragazzie non passava giorno ch'ei non venisse a Tebidiproprio come due fratelli... Poi egli è ricco che i denari li ha a palatee sevolesse delle donne potrebbe maritarsiné gli mancherebbe la robao il paneda mangiare -.
Mara invece andavasi riscaldandoe cominciò a strapazzarlo in malo modotantoche lui non alzava più il naso dal piatto.
Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse intossicoMara cambiò discorsoe gli domandò se ci avesse pensato a farzappare quel po' di lino che avevano seminato nel campo delle fave.
- Sì- rispose Jeli- e il lino verrà bene.
- Se è così- disse Mara- in questo inverno ti farò due camicie nuove cheti terranno caldo -.
Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire beccoe non sapeva cosa fossela gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capoe questa poi gliriusciva così grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarcimassime allorché si vedeva dinanzi la sua Maratanto bellae biancaepulitache l'aveva voluto lei stessae le voleva tanto benee aveva pensato alei tanto tempotanti annifin da quando era ragazzoche il giorno in cui gliavevano detto com'ella volesse sposarne un altronon aveva avuto più cuore dimangiare o di bere tutta la giornata. - Ed anche se pensava a don Alfonsononpoteva credere a una birbonata similelui che gli pareva di vederlo ancoracogli occhi buoni e la boccuccia ridente con cui veniva a portargli i dolci e ilpane bianco a Tebiditanto tempo fa - un'azionaccia così nera! e dacché nonlo aveva più vistoperché egli era un povero pecoraioe stava tutto l'annoin campagnagli era sempre rimasto in cuore a quel modo. Ma la prima volta cheper sua disgrazia rivide don Alfonso già uomo fattoJeli sentì come una bottaallo stomaco. Come s'era fatto grande e bello! con quella catena d'oro sulpanciottoe la giacca di vellutoe la barba liscia che pareva d'oro anch'essa.Niente superbo poitanto che gli batté sulla spalla salutandolo per nome. Eravenuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d'amicia fare unascampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era venuta pure Maraall'improvvisocol pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta fresca.
Era una bella giornata caldanei campi biondicolle siepi in fioree i lunghifilari verdi delle vigne. Le pecore saltellavano e belavano dal piacerealsentirsi spogliate da tutta quella lanae nella cucina le donne facevano un belfuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare. Isignori intanto che aspettavano si erano messi all'ombrasotto i carrubiefacevano suonare i tamburelli e le cornamuseo ballavano colle donne dellafattoriachi ne aveva voglia. Jeli mentre andava tosando le pecoresi sentivarodere dentro di sésenza sapere perchécome uno spinoun chiodo fittounaforbice fine che gli lavorasse dentro minuta minutapeggio di un veleno. Ilpadrone aveva ordinato che si sgozzassero due caprettie il castrato di unannoe dei pollie un tacchino. Insomma voleva fare le cose in grandesenzarisparmioper farsi onore coi suoi amicie mentre tutte quelle bestieschiamazzavano dal doloree i capretti strillavano sotto il coltelloJeli sisentiva tremare le ginocchia e di tratto in tratto gli pareva che la lana cheandava tosando e l'erba in cui le pecore saltellavano avvampassero di sangue.
- Non andare! - disse egli a Maracome don Alfonso la chiamava perché venissea ballare cogli altri. - Non andareMara!
- Perché?
- Non voglio che tu vada! Non andare!
- Lo senti che mi chiamano? -
Egli non disse altrofattosi brutto come la malanuovamentre stava curvo sullepecore che tosava. Mara si strinse nelle spallee se ne andò a ballare. Ellaera rossa ed allegracogli occhi neri che sembravano due stellee rideva chele si vedevano i denti bianchie tutto l'oro che aveva indosso le sbatteva e lescintillava sulle guance e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli untratto si rizzò sulla vitacolla lunga forbice in pugnocosì bianco in visocosì bianco come era una volta suo padre il vaccajoquando tremava dallafebbre accanto al fuoconel casolare. Guardò don Alfonsocolla bella barbaricciutae la giacchetta di velluto e la catenella d'oro sul panciottocheprendeva Mara per la mano e l'invitava a ballare; lo vide che allungava ilbraccioquasi per stringersela al pettoe lei che lo lasciava fare - alloraSignore perdonateglinon ci vide piùe gli tagliò la gola di un sol colpoproprio come un capretto.
Più tardimentre lo conducevano dinanzi al giudicelegatodisfattosenzache avesse osato opporre la minima resistenza:
- Come- diceva - non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso laMara!... -